Breve storia di un divano troppo grande

Nella mia camera tre metri per tre, avevo deciso di sistemare un divano a due piazze di fianco alla porta che permetteva di accedere al balcone. In quel periodo presi a guardare con attenzione tutte le inserzioni delle grandi catene di arredamento, Ikea per la maggiore. Quando trovavo qualcosa di bello incappavo spesso nel problema delle dimensioni. Troppo profondo, troppo largo e troppo alto. A me serviva un semplice divano che accogliesse comodamente i miei sessantacinque chili, consentendo loro di trovare una morbida superficie dove poter lasciarsi cadere con il resto del mio corpo. Pensavo già ai momenti in cui avrei letto un libro, visto un film o le prime sei puntate di una serie TV.

Il primo divano che entrò nella mia camera era bianco, in finta pelle, preso non ricordo dove. Più che un due piazze era poco più largo di una caparbia poltrona. Lo schienale si spingeva su, dritto verso il collo, concedendoti la possibilità di lasciar cadere la testa nel vuoto che si creava alle sue spalle. L’euforia scaturita dalla comodità dello spaparanzarsi nella posizione più consona a quello che stavi facendo durò relativamente poco, giusto due mesi. La staffa sinistra che sorreggeva lo schienale cedette di colpo, suscitando un sussulto al cuore per via dell’improvvisa storpiatura del mio busto. Nel giro di un secondo, preceduto da un rigorosissimo trac, mi sono ritrovato con lo schienale direzionato verso la parte posteriore del divano, come se fossi in una di quelle poltrone che ti accolgono negli studi dei dentisti. A dire il vero mancava solo lui, il dentista.

Quella sera feci in modo di salvare il salvabile, spostando il divano verso il letto, in modo da creare una sorta di resistenza, un sostegno, a quello schienale ormai divenuto mobile. L’indomani mi prodigai per rimediare al danno. Cercai di raggiungere la staffa che aveva ceduto la sera prima davanti ad una puntata di Scrubs. Dopo qualche tentativo maldestro, riuscii a mettere mano al danno. Era un’asta di truciolato, altro che staffa in acciaio come promesso dal venditore. Mi aiuto con una piastra di metallo bucata nei quattro angoli. Con la mano sinistra cerco di mantenere le due parti che prima formavano una sola sbarra, mentre con la destra cerco di segnare con la matita, in corrispondenza dei quattro fori, i punti esatti dove inserire successivamente quattro chiodi. Dopo diversi tentativi, e imprecazioni dell’ultima ora corse come sostegno morale, il lavoro riuscì. Riportati il divano bianco nella mia camera. Tutto era tornato come prima.

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Un mese dopo, mentre leggevo Tropico del Cancro di Henry Miller, sentii il mio busto abbassarsi sempre di più. Questa volta lo strappo avvenne con più cautela, niente colpi improvvisi. Allora riposizionai il divano davanti al letto che altro non poteva se non fare da sostegno. Un letto che arrivava in soccorso di un divano a due piazze, pensai. La cosa andò avanti per qualche giorno, finché non decisi di riprendere in mano la staffa di truciolato traditrice — come hai potuto, staffa di truciolato, tradire un corpo dal peso di sessantacinque chili? Quando vidi la vera entità del danno, questa volta le mie buone intenzioni vennero spazzate via da un improvviso uragano americano. Se Katrina mise in ginocchio la Louisiana, il cedimento di entrambe le staffe stroncò il mio futuro di giovane ragazzo dedito all’arte del poltrire sopra un bianco divano a due piazze.

Rassegnato all’idea di non poter più opporre alcun tipo di rimedio al truciolato sbriciolato, mi abituai a dividere la mia camera con un divano a due piazze utilizzabile solo se messo contro il muro. Iniziai così a prendere le distanze dalla sua stranissima seduta — per nulla profonda. Mi ci sedevo sopra solamente per leggere, eppure il suo utilizzo non mi soddisfaceva affatto. Il nostro rapporto, quello tra me e il divano bianco a due piazze, prese una brutta piega. Guardavo film e serie TV alla scrivania, costretto a sopportare il fastidio che, a lungo andare, può solamente provocare una di quelle sedie strambe con delle rotelle ai suoi piedi. Nel giro di qualche mese mi stancai di lui e della sua presenza, così presi la decisione incontrovertibile di disfarmi del suo ingombrante silenzio alla prima occasione.

Quell’occasione non tardò ad arrivare. Trovai in promozione un bellissimo divano a fasce verdi e gialle, il solito due piazze. Era lui il degno sostituto di quel traditore bianco. Quello schienale ha ceduto per dei miseri sessantacinque chili e per me questo inconveniente equivale ad un affronto in piena regola. Cosa vuoi dirmi, sono ingrassato? Anche se così fosse, non è mica questo il modo di reagire alla mia lievitazione. Sono solo sessantacinque chili, dei molli e tristi sessantacinque chili. Il nuovo divano era perfetto. Avrei comprato una nuova federa perché quelle strisce mi avrebbero mandato in fumo la vista.

Consegna su strada effettuata. Non mi restava che portarlo con me nella mia camera. Il suo predecessore era stato sistemato nella cantina, lì dove vanno a finire le cose ormai in disuso. Scartai l’imballaggio e via. Era perfetto, proprio come prometteva la descrizione sul sito web. Lo presi e lo portai dritto in fondo al piccolo corridoio. Aprii la porta e lo posai nello stesso posto dove giaceva inerme quello bianco. Mi sedetti e toccai con mano — più che mano direi sedere e schiena — la sua soffice accoglienza. Era proprio uno di quelli che ti stringono dentro di loro, avvolgendoti nel migliore dei modi possibili. Inutile dire il contrario, ero in estasi. Mi guardai intorno e compresi la perfezione fatta a camera. Tutto era nel suo posto, divano nuovo di zecca compreso.

La cosa durò circa cinque minuti, giusto il tempo di provare a chiudere la porta e di prendere atto dell’impossibilità di tale gesto. Per tre centimetri, tre innocui centimetri. I miei sogni si sciolsero nel nulla per soli tre centimetri. Fu uno strazio vedere quella porta sbattere contro il divano a strisce comodo, di bella presenza e soprattutto super resistente.

Portai anche lui, senza alcun motivo, in cantina. La sconfitta più grossa di tutte non fu sistemare stelle e strisce tra le cose inutilizzate, ma rimettere truciolato nel mia camera, con lo schienale appoggiato al muro.

Per fortuna oggi sono qui, in una camera non mia, con stelle e strisce rivestito con una federa marrone mentre guardo e ascolto una fitta pioggia di inizio giugno. Ci sono seduto da quasi due ore e la sua comodità è inarrivabile. Beh, è arrivato il momento di andare. Sarai sempre il divano a stelle e strisce che non mi sono mai goduto in tutte le sue forme. Continuerò a farti visita, saltuariamente ma verrò ancora a metterci sopra i miei sessantacinque miseri chili. Tu sì che mi comprendi, tu sì che mi accetti per quello che sono, caro stelle e strisce.

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