Tiger King e la fiera della vanità

La parola “ferino”, secondo il dizionario della lingua italiana, si riferisce a ciò che esprime “un’indole e dei comportamenti difficili o impossibili da addomesticare, talvolta incontrollabili e un aspetto selvatico e animalesco, non privo in taluni casi di una bellezza e fierezza spontanee, inconsapevoli, tali da incutere un rispetto frammisto a timore o a terrore vero e proprio”. E queste sono anche le caratteristiche perturbanti dei personaggi della recente serie Tiger King, in onda su Netflix e diretta da Eric Goode e Rebecca Chaiklin, vista da oltre 34 milioni di spettatori nei primi dieci giorni di programmazione. 

Alimentando la passione per gli animali esotici, il protagonista Joseph Schreibvogel ridisegna la proprio immagine diventando Joe Exotic, pittoresco quanto dispotico sovrano del Greater Wynnewood Exotic Animal Park Zoo in Oklahoma che, oltre a coccodrilli e scimpanzé, vanta la presenza di ben 227 tigri, regine incontrastate del parco. 

Lo zoo sembra essere un circuito di gabbie e prigionia più che un’oasi di benessere per gli animali. Joe gira costantemente con la pistola nella fondina legata ai pantaloni, sfoggiando sbarluccicanti giacche leopardate di svariati colori, un’improbabile mullet biondo tinto sotto il cappellino e baffetti da star. Poligamo e sposato con due mariti di trent’anni più giovani, recluta ex galeotti o improbabili soggetti borderline per tenerli alle sue dipendenze nel giardino zoologico, dove i visitatori spendono dai trecento ai seicento dollari per poter accarezzare le belve feroci e posare per una foto accanto a un tigrotto di poche settimane. 

Ogni giorno, da uno studio di registrazione della JoeExoticTv, il “Tiger King” trasmette le puntate del suo one-man show, bizzarro spettacolo in cui è impegnato nelle situazioni più eccentriche e di cattivo gusto, che molto spesso sfociano in vere e proprie invettive contro le associazioni animaliste. E proprio perché ogni trovata commerciale che possa accrescere il mito del personaggio è degna di essere intrapresa, Joe si lancia anche nella pseudo carriera di cantante country, pubblicando due album in cui qualcuno canta al suo posto, mentre lui presta ai videoclip la propria sagoma con la chitarra in mano. Il ritornello di una delle sue hit recita “i saw a tiger and the tiger saw a man”, viene da chiedersi chi tra i due abbia avuto più paura in quel momento.

Sono stati necessari cinque anni di riprese per dare forma a quello che a tratti sembra essere un documentario quasi recitato, talmente sono inverosimili gli accadimenti e le situazioni. Il diffuso utilizzo dello slow motion in diverse inquadrature studiate accentua il senso di finzione e messa in scena, come quando Joe viene ripreso mentre cammina verso la telecamera nei vialetti del parco,  o nei frames in cui cuccioli di tigre vengono chiusi dentro a trolley da viaggio per poter essere introdotti di nascosto in alcuni alberghi di Las Vegas.

A riportarci a un senso di “realtà” mutuato dalla cronaca, ci pensano gli inserimenti di servizi giornalistici riguardanti gli altri protagonisti della serie (ad esempio quando Saff perde un braccio, aggredito da un felino) e le registrazioni delle telefonate dal carcere di Joe, coinvolto nell’organizzazione dell’omicidio di Carole Baskin, sua acerrima nemica. Si tratta di un continuo contrappunto tra lo stile documentaristico del racconto dei fatti e una retorica che tende ad accentuare la dimensione mitologica dei protagonisti, nel tentativo di dare risalto quell’aura che li possa elevare al rango di “personaggi”. E ognuno dei contendenti principali, nessuno escluso, è un soggetto ferino, “selvaggio ma anche feroce, perfino crudele”, per tornare alla definizione del dizionario.

La già citata Baskin, che si oppone con lucida pacatezza ai metodi di allevamento di Joe, è al contempo sospettata di omicidio e occultamento di cadavere del suo primo marito, forse scomparso tra le fauci dei leoni. Incontriamo poi Doc Antle, fondatore di una associazione per specie in via di estinzione che arricchisce il suo parco con la presenza di belle ragazze, vestite da tigri e utilizzate all’occorrenza come amanti o lavoratrici volontarie, e Jeff Lowe, sedicente milionario playboy che aiuterà a rimettere in pista Joe dopo un crack finanziario, per poi incastrarlo nel caso del tentato omicidio ai danni della Baskin, in una scalata al possesso dello zoo-giardino.

Si tratta di eroi che animano la saga grazie alla loro eccentricità, in un contesto in cui la vicenda in sé assomiglia tanto a un litigio da condominio che ben presto assume le caratteristiche di una faida, corroborata da un crescendo di paranoia e follia nell’eroe centrale.

Il limite di “Tiger King” forse sta proprio nella parabola narrativa in sé, che a un certo punto si trasforma in una spietata querelle giudiziaria tra le parti, nella quale Joe viene prevedibilmente annichilito, ridimensionato alle fattezze di una belva sgangherata, poco lucida e infine sconfitta da avversari ben più solidi e strutturati di lui. Dopo i sette episodi che dispiegano la storia, è stato messo in onda da Netflix un ulteriore after-show in cui l’attore Joel McHale, nel pieno dell’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus, raccoglie interviste via webcam ad alcuni protagonisti del format dopo la sua uscita televisiva. Se questo contributo risulta interessante per la sua forma obbligatoriamente asciutta e scevra da linguaggi cinematografici, l’esperimento si traduce presto nel vilipendio collettivo, salvo poche eccezioni, del protagonista assente, ormai vinto e scomparso dalla scena, espropriato ed incarcerato.

In un contesto in cui il senso di sopraffazione dell’altro sembra essere il motore del racconto, a tratti ci sembra di essere immersi in una maratona di puntate di “Forum”, dove l’ipotetico scontro frontale all’ultimo sangue, anziché avere luogo in un’arena circense, è sublimato negli spazi spettacolari delle aule di un tribunale mediatico. 

L’enorme successo di pubblico sottolinea quanto sia affascinante ed efficace il tema dell’“uomo-fiera”, già presente in numerose produzioni cinematografiche e televisive di diverse epoche. Vengono alla mente, per citare alcuni esempi, Manimal, telefilm americano dei primi anni ’80, Grizzly Man, documentario di successo del regista tedesco Werner Herzog, o addirittura L’Uomo Tigre, popolarissimo anime giapponese di ormai mezzo secolo fa, in cui il campione di lotta libera nascondeva la propria identità sotto la maschera dell’animale selvaggio. 

Molte star americane, sull’onda della popolarità di “Tiger King”, hanno cominciato a postare nei propri canali social scatti in cui appaiono travestiti da protagonisti della serie. L’ha fatto Sylvester Stallone con tutta la famiglia, seguito da Jared Leto e Paris Hilton, tra gli altri. Che avesse ragione il refrain (non) cantato da Joe Exotic? “Ho visto una tigre, e la tigre ha visto un uomo”.