Il fantasma di Dubravka — Cap. IV

Alex stava aspettando Maria per la cena.

Erano ormai due mesi che convivevano e sin dall’inizio lui si era preso la briga di farle trovare la cena pronta ogni sera. E la cena era stata preparata con cura, data la particolare ricorrenza. Dovevano festeggiare, il loro amore era decollato negli ultimi mesi e le cose stavano andando a gonfie vele. Alex non se lo sarebbe mai aspettato: dopo la rottura con Milena cinque anni prima, aveva cominciato a pensare che forse non avrebbe mai più trovato una persona da amare, una persona che potesse stare così a lungo con lui, un persona con cui condividere almeno un tragitto d’esistenza o, chissà, magari tutta la vita.

Era felice Alex. Maria era così simile a lui, ma al contempo così diversa. Si sentiva finalmente compreso ma anche arricchito da una donna che, con la sua dolcezza e la sue pazienza, compensava gli aspetti più bruschi e irrazionali che spesso egli stesso si rimproverava.

Aveva cucinato un arrosto con patate che già emanava un profumino estasiante e sedeva sul divano guardando la televisione. Il telegiornale aveva dato quella notizia di cui tutti parlavano e lui, dopo un primo momento di spontanea ilarità, si era fatto improvvisamente serio.

“Possibile che un mostro del genere vada in giro in una città tranquilla come questa, e che ancora non lo abbiano preso?”

Anche a lavoro si era parlato della faccenda. C’era chi diceva che il mostro aveva già colpito una decina di ragazze, anche se il numero che davano i telegiornali era di molto inferiore. C’era chi diceva che aggrediva la vittima di turno lanciandole addosso liquami, feci di animali o con le sue stesse feci; altri dicevano che addirittura avesse tentato di compiere degli stupri, ma non c’era riuscito per viltà o per mancanza di tempo; c’era chi diceva che questo mostro potesse addirittura essere un celebre notabile della città; altri dicevano che fosse uno studente o un comune psicolabile di periferia. Fatto sta che un mostro che aggrediva e umiliava in quella maniera becera le ragazze c’era. Ed era ancora a piede libero.

Proprio in quel momento squillò il citofono.

Alex alzò il ricevitore:

“Sì?”

Dall’altra parte non rispose nessuno.

Un silenzio spiazzante riempì il ricevitore.

“Maria, sei tu?”

Ancora il silenzio.

Lontano si sentiva solo lo sfrecciare di macchine sulla strada bagnata, il leggero venticello e il ronzio prodotto automaticamente dal citofono. Ma, a parte questo, niente. Solo il silenzio. Un silenzio funebre.

Alex rimase per qualche secondo lì ad ascoltare. Poi udì qualcosa, qualcosa di inquietante. Un sommesso mugugno si sentì strascicare in sottofondo. Un singhiozzo interrotto, un lamento… Alex distinse nettamente il pianto di una donna, una donna che nello sgorgare straziane del pianto, stava cercando di pronunciare delle parole, stava cercando di dire qualcosa. Ma le parole erano interrotte e cupe, quasi come tappate, oppresse da quel qualcosa che era accaduto e che come una lama di coltello aveva troncato la lingua dell’interlocutore, impedendogli di parlare.

“Maria, ti prego rispondi!” — fece ancora Alex.

Ancora un mugugno, un lamento sommesso.

“Maria, rispondi!” — urlò Alex.

Maria rispose:

“Ti sei cagato sotto, eh?”

E una grassa risata di donna inondò il ricevitore.

Ore 16.18. Chiosco dei panini di Kamenne Namestie.

Vladimir stava trangugiando il suo richman kebab ripieno di verdure miste e inondato di salsa tartara. Simona lo guardava un po’ schifata e, aspettando il rimprovero imminente dell’omone, tirava lunghe boccate alla sua sigaretta Rothmans alla vaniglia.

Il rimprovero del collega, come temeva, arrivò puntualmente.

“Tu sei pazza!” –disse Vladimir, pulendosi la bocca con un fazzolettino — “Davvero vuoi andare da Svetlan?”

“Non credo ci siano alternative” — fece Simona — “In un mese e mezzo abbiamo mostrato tutta la nostra impotenza…”

Il caso del fantasma di Dubravka o ‘fantasma fecale’ (come l’avevano elegantemente ribattezzato i giornali locali) era ormai a un punto morto. Il capo della polizia era sotto pressione da tutte le parti e, secondo le voci, erano ormai certe le sue dimissioni. Nel distretto tutti vociferavano che sarebbero state tante le teste a saltare, se non fosse venuto fuori niente nei giorni successivi. E Simona era una di quelle teste, di certo sarebbe stata fra le prime, dato che era stata personalmente incaricata di investigare sulla faccenda. Il Capitano della polizia aveva cercato di distribuire le responsabilità e, sollecitato dal magistrato, aveva acconsentito a far scendere in campo una task force di psicologici e un team esperto in reati seriali. Ma ormai la faccenda stava assumendo contorni grotteschi inimmaginabili e la reputazione della polizia era giunta ai limiti storici.

Simona non sapeva che pesci prendere. L’unica era ricorrere a lui, il jolly, più che altro un joker. L’investigatore privato Peter Svetlan.

Non ne era convintissima e il solo pensiero la umiliava, quasi la schifava. Ma oramai non c’erano altre vie. Almeno sulla carta.

Svetlan era un personaggio particolare: ex poliziotto, dopo tre anni di servizio e fondamentale anonimato, aveva deciso di mettersi in proprio e aveva fatto fortuna. In pochi anni aveva accumulato un’ingente fortuna e aveva lavorato parallelamente ad indagini a cui stava già lavorando la polizia, ma con opposti risultati. Mentre la polizia anche in quei casi aveva dato prova della propria incapacità, Svetlan per conto terzi (ricchi industriali, compagnie internazionali e addirittura apparati criminali) aveva in pochi giorni risolto i diversi casi in ballo e aveva sponsorizzato su tutti i media i propri risultati. Facendo così fare la figura degli idioti ai suoi ex colleghi.

Ecco perché tutti i poliziotti lo odiavano. Si vociferava anche che fossero state aperte alcune indagini sul suo conto per dimostrare come il suo lavoro fosse fondato su ambigui rapporti con industriali stranieri e criminalità organizzata, e per evidenziare come le sue operazioni sfociassero spesso nell’illecito.

Ma fino ad allora non se n’era fatto niente. E Svetlan anzi, paradossalmente, aveva cominciato a collaborare in via ufficiosa con alcuni poliziotti per risolvere le faccende più intricate. Simona era contraria a questo tipo di collaborazioni, soprattutto con un losco figuro come Svetlan. Ma questa volta era lei nella merda, letteralmente, e sapeva bene che forse quel turpe individuo rappresentava la sua ultima chance, l’unica soluzione per uscire da quella impasse.

“Ti accompagno, vieni in macchina” — le fece Vladimir — “Finché arriviamo, cambierai idea.”

Simona sorrise, sapeva che non era così. E notando che l’omone era ancora sporco di salsa sul mento e stava evidentemente cercando di contenere l’aria che gli usciva dallo stomaco, gli rispose:

“Se credi di farmi cambiare idea con un rutto o con un peto, ti sbagli di grosso.”

“Lo sai, sono la mia specialità” — le fece Vladimir, ammiccando.

Partirono in fretta e furia.

Sfrecciarono silenziosi verso il castello di Bratislava.

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