Edward Hopper e Gustav Deutsch – Una finestra sulla solitudine

solitudine

Una donna, seduta sul suo letto. Mentre il sole sembra volerla abbracciare, inondare, lei si stringe un po’ di più alle sue ginocchia, e con lo sguardo scavalca il davanzale di una finestra che dà sulla solitudine. Strade vuote e nient’altro che silenzio. Stiamo parlando di “Morning sun” (1952), uno dei capolavori del pittore statunitense Edward Hopper.

Nato nel 1882, durante la Grande Depressione, l’artista ha attraversato le due Guerre Mondiali, fino ad arrivare ai conflitti razziali, l’assassinio di John F. Kennedy e l’inizio della guerra in Vietnam; ma anche l’era della musica jazz, la nascita della radio, del cinema e di Bob Dylan. Un periodo di tutto rispetto, che ha visto la nascita di nuove e rivoluzionarie tendenze artistiche.

Tutto questo frastuono di eventi, bombe e tavolozze si spegne per qualche istante, e lascia spazio al silenzio.

Hotel room , Edward Hopper (1931)

Ho sentito dire più volte che la vera protagonista dei quadri di Hopper è la luce; a me, invece, piace chiamarla energia.

Guardando le sue opere si percepisce una tensione simile a quella della corda di un violino, e ciò è reso possibile da un’energia che permette a luci ed ombre di scolpire anime solitarie e corpi abbandonati in stanze troppo colorate. I suoi dipinti sfondano le tele ancor più dei tagli di Fontana, e in modo apparentemente più composto. Mentre le inquadrature bloccano i momenti rappresentati in blocchi di ghiaccio, si apre agli occhi dell’osservatore un contenuto spirituale e contemplativo; ci si immerge nella propria solitudine.

I soggetti dei quadri di Hopper sono spesso figure singole – o sarebbe più corretto dire figure sole – e, quando capita che si incontrino, resta comunque un forte distacco tra di loro. Sia che guardino in direzioni diverse, sia che ognuno sia concentrato sul suo lavoro, sia che si trovino semplicemente in compagnia, sembrano non ascoltarsi tra di loro, sembrano non sentirsi nemmeno. Eppure ciò che l’artista crea è proprio una dimensione di ascolto.

Sì, proprio così. Perché siamo noi spettatori ad ascoltare. Le figure nella scena sembrano ascoltare se stesse, e il rapporto con gli altri sembra essere permesso esclusivamente da questo ascolto solitario. Noi ascoltiamo loro, e facendolo diventiamo come loro. E quindi ascoltiamo noi stessi. 

Room in New York, Edward Hopper (1932)

C’è qualcun altro che ascolta, che origlia. Il suo nome è Gustav Deutsch ed è un regista indipendente austriaco. Quanto aveva ragione Picasso – sempre che fosse lui – quando ha detto che i mediocri imitano e i geni rubano!

Nel 2013, alcuni dipinti di Hopper hanno traslocato dalla terza alla settima arte e, per quanto le anime dei personaggi illustrati sembrassero già vive, dentro a quelli che ho precedentemente chiamato dei “corpi morti” è iniziato a scorrere del sangue.

“Shirley: Visions of Reality” è la versione cinematografica di tredici opere hopperiane. Un film sperimentale, da vivere e da contemplare. A parlare sono soltanto l’anima di una donna in continua evoluzione e il silenzio. E un radiogiornale, ogni tanto.

I molteplici spostamenti di Shirley sono soltanto un contesto in cui viene posto il viaggio più importante di tutti: quello dentro di sé. Vivendo in isolamento dalla realtà e dai suoi stessi rapporti, la donna trova la sua realtà, la solitudine. Una solitudine che sembra non finire mai, che la segue sempre e che chiede d’essere ascoltata. Una solitudine che insegna l’arte dell’eterno attendere, per poi ricominciare da capo, ma con più autocoscienza.

Shirley: Visions of Reality, Gustav Deutsch (2013)

Quest’opera contemporanea e immersiva è accompagnata dalla fotografia di Jerzy Palacz, che scongela in maniera nostalgicamente fedele l’universo emotivo e visivo di Hopper. Un’atmosfera scarna e malinconica si infiltra negli spazi architettonici e nei corpi degli attori, che sembrano sospesi in degli istanti infiniti, tra una pennellata e l’altra. I movimenti lenti ed esasperati fanno sì che la resa finale non si allontani più di tanto dalla sua origine pittorica. È un cane che si morde la coda, un paradosso: dei dipinti ispirati alla fotografia e al cinema che finiscono per ispirare a loro volta un lungometraggio. 

L’arte che ispira l’arte. L’arte che ispira l’uomo, o l’uomo che ispira l’arte. Hopper stesso disse: «L’opera è l’uomo, una cosa non spunta dal nulla».

Ma l’uomo e il suo Io spuntano dalla solitudine, dalle parole non dette, dai momenti sospesi, dall’ascolto e dall’attesa. 

Shirley: Visions of reality, film completo