Frammenti di felicità

Al numero 7 di una via in centro a Torino c’è un grande portone di legno massiccio, un po’ scardinato e che cigola ogni volta che viene aperto. Appena si entra nell’androne, non fai in tempo a sollevare gli occhi che la porta si chiude sbattendo sonoramente alle spalle diffondendo una strana quiete, e tutti i pensieri che prima ti accompagnavano ora si ammutoliscono. Ogni volta mi sembra di essere accolta da un luogo sacro, fresco e silenzioso. La volta di stucco decorata è un po’ scrostata, ma non importa, perché c’è un nido di rondini che attira l’attenzione e mi ricorda quando da bambina al mare andavo a guardare i piccoli appena nati che si rifugiavano sotto una tettoia. Cammino per pochi metri facendo attenzione alle gocce d’acqua che dai balconi cadono, probabilmente da qualche vaso di fiori grondante, e mi dirigo verso le scale con un certo sconforto, l’idea di fare cinque piani senza ascensore è un po’ come iniziare un percorso in montagna e sapere che il programma è di camminare cinque ore. Ma i gradini di pietra sono lisci e freddi, pericolosi al punto giusto e conducono su, e ancora più su fino al corridoio di mattonelle antiche. Con il cuore in gola e le gambe tremolanti giro le chiavi nella serratura, un passo all’interno e un respiro di sollievo: casa.

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Foto di Ada Zegna

Questa casa è tante cose.

È la mansarda che mi accoglie, è piccola ma si apre sulla vastità di tetti, camini, nuvole, come un abbaino da cui ammirare il cambiamento delle stagioni. Quando sei immerso nella solitudine senti di essere sulla torre più alta di un ipotetico castello, intoccabile e in attesa che nulla capiti, se non semplicemente osservare mutare le sfumature del cielo.

È la luce che penetra dappertutto, come l’acqua che cerca sempre il punto più basso per scorrere. Appena un raggio di sole trova un passaggio, si infila, si insidia in profondità e se nulla lo ferma, rimbalza fino al primo ostacolo, spegnendosi o rifrangendosi di nuovo a seconda di ciò che incontra. Il momento più bello è la mattina presto, quando la stanza è calda, avvolta da un’aurea rossa dovuta al sole che filtra fra le tende e si posa sulle lenzuola bianche. La tenerezza del risveglio rende il sogno che facevi ancora reale, prolungato nella perfezione delle piccole cose quotidiane: lavarsi il viso, mettere de André a basso volume, preparare la colazione e lasciare che il profumo del caffè percorra la stanza.

Ma la situazione che preferisco di tutta la giornata è quella che si crea nei palazzi che circondano la mansarda, mentre il sole cala e l’ora di cena si avvicina. Se mi affaccio al balcone sono certa di trovare intorno a me quelle azioni rassicuranti delle persone nelle loro abitazioni, tra le luci accoglienti delle cucine, ignare di essere osservate: una ragazza che urla “mamma!”, qualche cane che abbaia, il pianto di un bambino, il rumore di stoviglie, di tavole apparecchiate, di risate serene, l’odore invitante di qualche pasto che mi ricorda tanto i fiori di zucca che cucina la nonna, vedo un gatto che passeggia sul tetto, i panni stesi che svolazzano, la signora anziana che guarda la televisione, una famiglia seduta a tavola. C’è della musica che proviene dal negozio di dischi di sotto.

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Frammenti di felicità. Ecco dove si nasconde la bellezza che avevamo perduto.

Casa è anche il vento che entra dalle finestre, a volte cattivo e scortese, che sbatte sui vetri con arroganza durante i temporali e rovina il legno delle ante, ma che rigenera quando fa troppo caldo, solletica il viso e fa volteggiare le fotografie appese. È odore di incenso, di curry, di rabbia, di euforia, di lavanda, un odore di giornate finite male e di sonno che non viene. E’ uno spazio che fa parte di quello che sono, perché questa è la funzione dei luoghi, di cui conosco ogni particolare perché so dove ho nascosto quelle paure, dove ho posato tutti quei dubbi e le discordie. So che tra i libri messi in ordine c’è spazio per altre vite e che in fondo ai cassetti ho lasciato un po’di posto per altre facce da indossare e altre forme da prendere. Ho appeso molte cose, per guardarle e poter immaginare, ho attaccato fotografie che sbiadiranno e chiodi che rimarranno inutilizzati. Ho imparato, più di tutto, qual è la differenza tra vivere in una casa e vivere una casa, perché per me, come quel nido di rondine in cortile, è un rifugio.

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