Sylvia Plachy e il substrato della realtà

Da qualche tempo c’è un pensiero che mi ronza nella testa: gli artisti ungheresi hanno qualcosa in più rispetto agli altri. L’artista che vi voglio presentare oggi è Sylvia Plachy, una fotografa che ha trascorso i suoi primi tredici anni di vita in Ungheria e che, proprio come Agota Kristof, (di cui vi ho parlato qui) nel 1956 è fuggita dal suo paese sconvolto dalla rivoluzione.

Dopo la fuga la giovane Sylvia va a vivere a New York con la sua famiglia. Sarà suo padre a regalarle la prima macchinetta fotografica. Il regalo non è un caso: si tratta di un modo per farla sentire meno sola dato il recente sconvolgimento della sua vita per la fuga dal paese natale. Così Sylvia comincia a fotografare per ritrovare sé stessa, facendosi subito notare da nomi del calibro di André Kertész.

Ho conosciuto il lavoro di Sylvia Plachy grazie a un interessante documentario trasmesso da Rai5 nel febbraio del 2013. Il documentario in questione, Close Up: Photographers at work, che risale al 2007, comprende la presentazione dei lavori e degli stili di cinque fotografi tra cui quelli della Plachy. L’aspetto più interessante è il modo con cui la fotografa accoglie l’intervistatrice e la troupe a seguito: non appena li scorge fuori dalla sua porta, scatta una foto. Questo è un tratto distintivo di una determinata categoria di fotografi, ovvero scattare istintivamente, senza prefigurarsi un’immagine precisa nella mente.

Quello che Sylvia vuole comunicare è il sentire una fotografia piuttosto che vederla, creare un legame non solo attraverso l’occhio, ma anche e soprattutto con l’aiuto di tutti gli altri sensi. In un certo senso il tipo di fotografia che sviluppa non è prettamente materiale, piuttosto le interessa ciò che giace sotto la superficie della realtà. Altro leitmotivdell’opera di Sylvia Plachy è la continua ricerca di un significato, un’essenza se vogliamo, che si trova alla base delle sue foto.

Quando mostra il suo libro Self Portrait with Cows Going Home (2005) è interessante capire il significato dietro a un titolo così bizzarro. Il motivo della scelta di tale titolo è dovuto al fatto che le mucche vagano tutto il giorno e quando sentono di essere arrivate a casa muggiscono. È un libro che parla, fotograficamente parlando, del tornare a casa. E questo è un tasto dolente per la fotografa, che la sua casa l’ha abbandonata appena tredicenne per via della Rivoluzione ungherese. Un altro aspetto rilevante è ascoltare la spiegazione della scelta della fotografia che più rappresenta Sylvia Plachy.

SylviaPlachy_selfportrait

Quello della fotografa è un invito a rialzarsi, ad attaccarsi alle proprie espressioni artistiche così come ci si attacca alla vita. Una voglia di restare positivi nonostante l’acqua alla gola della quotidianità, mentre lei stessa dice: “non si sa mai, ci sono cose che accadono.” E pronunciando queste parole diventa riflessiva. Sembra che stia pensando a qualcosa in particolare, qualcosa che non sapremo mai. Perché se conoscete gli ungheresi, saprete meglio di me che fanno della loro vita un mistero che si può solo intravedere osservandoli di soppiatto nei momenti di riflessione.

Le foto che ho selezionato della straordinaria Sylvia Plachy riflettono tutte una sensualità completamente diversa da quella dei lavori di artisti come Bill Brandt o Helmut Newton. La definirei una sensualità razionale, ponderata in un certo senso. Perché alla fine sotto la patina della carta fotografica c’è un insieme di simboli, significati ed essenze, quello che rende unico il modo di tradurre in immagini il substrato della realtà di Sylvia Plachy.

Se siete avvezzi ai video in lingua originale, ecco alcuni estratti dalle interviste del documentario Close Up: Photographers at work.

Mariateresa Pazienza

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