Prigionieri senza ticket per il paradiso: Ronan Guillou

di William Dollace

Il pensiero immobile, il corpo in movimento.
Il corpo immobile, il pensiero in movimento.

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La fotografia di Ronan Guillou, sedimenta corpi ancorati a terra, che si orientano con le stelle, che non hanno passato indenni la loro Revolutionary Road.

Sembrerebbe che il cielo sia davvero dei violenti, che la fuga sia la tensione pronta a esplodere, che la speranza diventi asfissiante, come un canto nella neve silenziosa di Selby Jr.

Opere incendiarie, episodi, schiene e sguardi che raccontano come è impossibile orientarsi con i jukebox delle stelle, cani della mente che abbaiano ma solo nel cranio, indenni megafoni per potersi condividere, posizioni irrisolte di cartongesso, manichini che hanno finito le cartucce per il mestiere di vivere.

È un mattatoio questa idea di territorio ancorata ai corpi, particelle che elementari si ingolfano di fango e detriti, quelli di una vita risolta col chiedere: “perché non ballate?”

Fingeremo di essere morti, per capirne appieno l’anima sbagliata, eppure vacante, come mille luci impietosite dai lunedì blu di Grunberg, asfaltati dalle perizie, in questi Novecento disimparati nei bowling, nelle città scansate e moribonde, dietro le vetrine feroci, sulla transitorietà che può essere solo scattata, e scattante, in uno stato di ordinato disordine.

Siamo qui, pronti ad accoglierle, con l’oblio in una mano e un ultimo inverno nell’altra, consapevoli che la vita non è un paese per vivi, ma per solitudini rumorose, assordanti, senza urla, senza furore.

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