Jay McInerney e il vortice metropolitano

Dal Massachussetts a New York il passo è breve. Soprattutto se sei un giovane ventiquattrenne che dopo la laurea è in cerca del successo, accetti qualunque lavoro si presenti pur di fare la giusta gavetta. Inizi dal basso per poi partire verso la vetta, scalando la cima con l’intenzione di raggiungere i piani alti. Sguazzare nel mare di coloro che occupano ruoli chiave — e di tutto rispetto — e godere di quella buona dose di privilegi che determinati lavori trasmettono.

In Le mille luci di New York (Bompiani, traduzione di Marisa Caramella) di Jay McInerney, incontriamo un protagonista perso nella metropoli più affascinante degli Stati Uniti. I rumori di fondo sono parte del traffico strombazzante dei taxi gialli e dei locali notturni che frequenta. Tutto è sfuggente, e in un breve lasso di tempo vedrà il proprio matrimonio in declino e il lavoro andato a farsi benedire.
Sua moglie Amanda è rimasta in Europa dopo essere partita per un set fotografico tra la Grecia e la Francia. Annuncia il suo divorzio attraverso una telefonata che lascia impietrito lo stesso protagonista — cui McInerney non ha dato alcun nome proprio di persona.

Inizia così un vortice fatto di bevute e sniffate di coca per i locali più importanti della città. Ad accompagnare il protagonista c’è il suo amico di scorribande Tad, un personaggio sempre pronto a far mattino in qualsiasi momento della giornata. Portare con sé un paio di occhiali da sole quando si esce di casa la notte è d’obbligo.
Al divorzio sofferto si aggiunge il licenziamento dal posto di lavoro; lavorare in una rivista era il suo sogno, ma non nel Reparto Verifica dei Fatti diretto dalla perfida Clara. Al protagonista invece interessava quello della Narrativa. Ci ha provato un sacco di volte, ma i suoi pezzi sono stati sempre rifiutati. Ammira perennemente il fascino dei suoi colleghi impegnati nella stesura dei pezzi che la rivista pubblica tra le proprie pagine.

Il disagio del protagonista, in un primo momento inconscio, lo guida attraverso i bagliori di una città che non dorme mai. Le sfilate di alta moda, gli articoli di Vogue e le feste esclusive scandiscono i ritmi di una vita mai lenta che abbraccia in pieno i valori relegati ad una estetica spinta sino all’ennesima potenza.
Tra righe bianche e uscite occasionali improvvisate su due piedi, il senso di smarrimento totale verrà fuori solo nel momento in cui comparirà suo fratello Micheal, e con lui gli ultimi ricordi della malattia che ha condotto alla morte la loro madre.

Jay McInerney, allievo ai corsi di scrittura creativa tenuti da Raymond Carver, descrive — come meglio può uno scrittore al suo esordio — parte della scena mondana che si respirava a New York negli anni ’80. Per le strade, alle fermate della metro, in ogni singolo angolo della città la gente sfoggia la propria copia del Post. Si corre da una parte all’altra senza mai fermarsi un istante. I taxi lavorano tutto il giorno. Voguedetta legge e sempre più si assiste all’affermazione del binomio moda-polvere bianca.

Tutti qui hanno il look Jordache. Centinaia di dollari di cosmetici sulle donne e migliaia di dollari intorno al collo degli uomini con la camicia aperta sul petto. Crocifissi, Stelle di Davide e cucchiaini da coca pendono dalle catenine. Alcuni contano sull’aiuto di Dio, per trovare da scopare, altri sulle droghe.

Nonostante il clima — privato e non — sia abbastanza teso, a portare il protagonista alla riflessione sul dolore provocato dalla perdita di sua madre è il profumo del pane appena sfornato. Un atto di una semplicità unica che irrompe nel ritmo incalzante della vita metropolitana, che scaccia via i fantasmi di una depressione mai riconosciuta fino a quel momento. Rimandare continuamente l’osservazione delle realtà comporta una fuga senza alcuna meta. È questo che fa il protagonista: a chiunque gli chieda informazioni su sua moglie, lui dà risposte sempre diverse. Non accetta di esser stato abbandonato dalla donna che ama come non accetta l’idea della morte di sua madre.

In quel vortice metropolitano che risucchia la sfera temporale fino a renderla quasi inesistente, soffermarci su dei piccoli particolari — in questo caso dei sacchi di panini appena sfornati — potrà rivelarsi utile al ritrovamento, e al ricordo, di quegli attimi ormai persi.

Jay McInerney, Le mille luci di New York, traduzione di Marisa Caramella, Bompiani, 2015, pp. 153.

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