I luoghi inesplorati di Riccardo Mion

Natura e selvaggio sono concetti che vanno sempre di pari passo verso la propria affermazione. Parole che sono state accostate da tempi immemori, principi inviolabili ma continuamente messi alla prova, scaturiti da profonde riflessioni che hanno contribuito alla nascita di un immaginario abusato nell’utilizzo improprio del termine.

La natura è il selvaggio per eccellenza, popolato da esseri accomunati da un’esistenza in continua lotta per l’adattamento, la sopravvivenza e la riproduzione della specie. I ritmi scanditi hanno caratterizzato ciò che l’uomo cerca di tenere sotto controllo con la sua opera invettiva. Spesso si fa risalire questo aspetto alla nascita della scienza e della tecnica, due branche della storia umana molto simili fra loro ma non per questo sussidiarie.

Conoscere la natura, i suoi meandri, la sua indole selvaggia, appartiene a ciò che alimenta la nostra curiosità, soprattutto se decidiamo di osservare il rapporto che noi uomini intratteniamo con le sue sfumature.

Ad alimentare questo scenario ci ha pensato la letteratura. La gran parte dell’opera di Jack London, ad esempio, è basata proprio sul rapporto che intercorre tra l’uomo e le sue origini. Il rispetto dei tempi, la cronologia degli avvenimenti che hanno formato e modificato il paesaggio che ammiriamo con i nostri occhi.

La letteratura ha creato immagini lì dove non era possibile addentrarsi. Ad essa si è affiancata dapprima la pittura, fino alla diffusione del cinema e della fotografia elaborati nel corso del secolo scorso. Immagini nate con l’applicazione delle parole, poi figlie delle terre utilizzate da Manet, fino a giungere all’utilizzo della pellicola come mezzo attraverso cui catturare un preciso istante, ovvero la realtà nella sua più totale veridicità.

Riccardo Mion, giovane fotografo italiano originario di Ivrea, mi ha letteralmente colpito per via della sua capacità di sottintendere nelle sue fotografie quello che è insito nel rapporto tra uomo e natura. I suoi lavori, ottenuti tramite pellicola e megapixel, riescono a consegnare alla nostra curiosità una parte, seppur minima, delle forme che l’essere umano riesce ad assumere una volta entrato in contatto con quel selvaggio tanto osannato. I boschi di montagna e gli alberi spogli del periodo autunnale vengono celebrati da un tempo di scatto che consegna un risultato che appare freddo e incontrovertibilmente maturo allo stesso tempo. Il sole, che con il suo riflesso scolpisce i lineamenti delicati di un volto fermo a fissare un vuoto a noi oscuro, le acque che bagnano le rive di un lago solitario attraverso cui si approda tramite un sentiero poco battuto. I capelli avvolti dal fumo che si innalza dalle bocche timide, sagome che rincorrono la propria ombra fino a scoprire il futuro immediato.

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La fotografia di Mion corre lungo la strada dell’inesplorato che emerge solo attraverso la lente dell’obiettivo. Una capacità, la sua, che consente alla curiosità di sfogare il suo dolce quanto maledetto sentimento che la nutre. Dura per un breve istante, poi ti ritrovi lì a fare i conti con una fame incontrollata che si alimenta tramite l’eccessivo senso di vuoto che ci abita, pronti a volerne sempre di più.

La natura e il selvaggio vengono descritti abilmente. Gli scatti racchiudono perfettamente il senso di un connubio a sua volta imperfetto. La dualità resiste alla confusione che scaturisce dal caos della scoperta come un brano qualsiasi di Justin Vernon e i suoi Bon Iver. Riccardo Mion immortala gli istanti che, nella loro profondità espressiva, descrivono l’uomo e l’attrito con i suoi rapporti di sopravvivenza.

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Riccardo Mion: Facebook Instagram

 

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