Attraverso la bottiglia di Bukowski

Leggo un Bukowski l’anno. Con lui, con i suoi libri, ho un rapporto che dura da diverso tempo ormai. Ho iniziato con Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle (Feltrinelli, cura e traduzione di Fernada Pivano), una lunga intervista realizzata dalla Nanda nazionale in cui Bukowski discute sulle sue scelte, sui suoi gusti letterari, sulla sua carriera di scrittore, sulle apparizioni in tv e via dicendo. Insomma, un modo un po’ anonimo per conoscere uno scrittore.

L’ultimo suo libro che ho letto in ordine di tempo è stato Compagno di sbronze (Feltrinelli, traduzione di Carlo A. Corsi). Venti racconti in cui si ritrovano i temi cari allo scrittore californiano, temi che hanno fatto letteralmente impazzire di rabbia un certo femminismo — in Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle e Shakespeare non l’ha mai fatto(Feltrinelli, traduzione di Luigi Schenoni) c’è tutta una parte sulla protesta che alcune femministe hanno tenuto fuori ad alcune delle sale che ospitavano i suoi reading.

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Illustrazione di Emiliano Ponzi

Al di là dell’uso popolare che si fa di Bukowki e dei suoi libri — citare un suo brano, renderlo un vero e proprio aforisma, è diventato un fenomeno ormai incontrollato su tutti i social network — ha contribuito alla diffusione della sua opera, inutile star qui a negarlo, ma allo stesso tempo ha mancato di suscitare una certa riflessione, ovvero: qual è il Bukowski che tutti osannano, quello che beve a sbafo e lancia bottiglie di birra contro le pareti, oppure quello che prende a botte la sua compagna perché gli ha finito le sigarette?

Indipendentemente dal giudizio che ne verrà fuori, è dimostrato dai suoi libri che esistono due Charles che vanno per la maggiore. Quello ubriacone da un lato, quello che lancia le sue frecciatine piene di rancore e di una malinconia inerente ad una certa visione della vita, e dall’altro quello che per molti è un vecchio misogino, quello che non si controlla per delle banalità che dimostrano la sua fragilità in quanto persona sempre alla ricerca di qualcosa — un po’ tutti siamo alla ricerca di qualcosa.

Qualcuno potrebbe affermare che quel Bukowski lì, quell’ubriacone che ogni volta da di matto, altro non è che la fedele rappresentazione di una realtà fatta di maltrattamenti di ogni genere, da quelli verbali a quelli fisici. Sarà, ma allora, in questo modo, qual è il messaggio che passa, perché dobbiamo continuare a leggere uno scrittore del genere se quello che emerge è solo un insieme di violenze e offese scabrose al limite della decenza? Questa sembra la vera sfida intrapresa da tutti i moralisti che non perdono tempo a discutere sul costume di uno scrittore come Bukowski. Fosse per loro non si dovrebbe nemmeno parlare di Louis-Ferdinand Céline.

Dal canto mio, quello che incontro ogni volta che apro un libro di Bukowski, ogni volta che leggo una sua poesia, è un istinto di sopravvivenza che ti trascina — in questo caso non solo i suoi protagonisti — verso il prossimo gradino di una scala infinita da percorrere tutta in salita. In Post office (Tea, traduzione di Marisa Caramella) c’è un battaglia che Chinaski — protagonista e alter ego dello scrittore — conduce contro i propri demoni, contro lo stato perenne di sofferenza causato da un lavoro che poco ha a che fare con la sua indole di uomo oppresso da un enorme senso di inadeguatezza. In questo caso, l’alter ego di Bukowski, comunica al lettore il disagio in cui è immersa la propria esistenza e tutto quello che ne consegue. È un disagio che si riverserà lungo tutta la sua produzione, fino a decretare la sua massima espressione, la sua incoronazione, nelle pagine scritte prima della sua morte.

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Charles Bukowski e Linda Lee Beighle — foto di Thomas Hoepker

I sobborghi di Los Angeles, quelli della California infuocata dal sole di mezzogiorno, sono il teatro dove Chinaski, i protagonisti dei suoi racconti e quelli delle sue poesie si ritrovano ad infierire contro le loro stesse vite, lanciando i dadi di una partita al tavolo verde come il prato delle corse su cui puntano tutto il loro assegno statale. Le sue parole biascicate, le sue risate malefiche che ti riportano con i piedi sulla terra, si concretizzano dopo una serie di avventure che rivolgono i riflettori sulla scena di un’insormontabile declino malinconico, dove la tristezza ha la meglio sullo spirito di rivalsa che sembra voler lottare a tutti i costi contro la rassegnazione. In tutto questo si nasconde la capacità di riuscire a mettere insieme i tasselli di un’esistenza e farli combaciare nel tentativo di ripristinare i sogni, ma nonostante questo, per i moralisti l’inclinazione misogina resta senza mai disgregarsi definitivamente.

Le scommesse, le bevute e il sesso hanno identificato in Bukowski un uomo pieno di contraddizioni strambe a cui egli stesso cercava in tutti i modi di sottrarsi. Amava la solitudine, amava rimanere solo con sé stesso e riflettere sulle proprie condizioni, sulle donne, sulla scrittura e sulle puntate vincenti. I suoi modi di fare, di interagire con il resto della società, non devono in alcun modo offuscare la sua intera produzione. Sarebbe da sciocchi recriminare ogni pagina da lui scritta come esclusiva rappresentazione di odio verso le donne maltrattate e ritenute esclusivo mezzo per raggiungere piacere. La sua è una ricerca che va oltre tutto quello che appare come irrimediabile follia.

Attraverso Bukowski si possono scoprire realtà fuori dall’ordinario, realtà che lo mettono a soqquadro fino a destabilizzarlo, rendendolo esclusivamente costruito da un costume fin troppo falso, fin troppo osceno per via della sua distanza dal vero disagio che nelle zone d’ombra esplode avvolgendo poi l’intera stanza dei giochi. Un po’ come scegliere di lasciare il centro di una città per fare un giro nella periferia e capire se anche in quei posti si può chiedere uno spritz al tavolino del primo bar che capita.

Una ripercussione, quella dello scrittore californiano, che si è spinta fino ad invadere quella che comunemente definiamo letteratura pop. Ma allora tutta quella misoginia, quel sesso incontrollato, quelle bevute isteriche e quelli stati d’animo oscillanti tra l’alto e il basso, dove conducono? Beh, a dirla tutta, conducono dritto verso gli aforismi estrapolati con la forza dai suoi libri e che campeggiano sulle bacheche di Facebook, nei centoquaranta caratteri di Twitter e nelle didascalie di Instagram. Per tutto il resto c’è un’editoria che, una volta compresa la gittata di uno scrittore come Bukowski, stampa e ristampa a ripetizione tutte le sue opere, rendendoci questo insopprimibile disagio meno pesante del solito.

Per quel che riguarda la mia promessa di leggere un Bukowski l’anno, potrebbe essere infranta. Magari ne leggerò e rileggerò due, tre, quattro. Nella sua scrittura minimalista, nella sua parola sporca, nelle sue folli scopate, nel fondo delle sue bottiglie, si cela un senso comune, un ritrovarsi nell’instabile moria di desideri che si accalcano lungo le nostre vite prima che esse riescano a rendersi conto di quanto avere gli occhi chiusi contribuisca all’isteria che ci abita. Allora non importa più se ne leggeremo uno, due, tre, quattro. Fare i conti con i disturbatori lasciati oltre le porte chiuse con la cieca prepotenza che ci contraddistingue è solo una faccenda come tutte le altre che attendono — e che attenderanno all’infinito — di essere risolte.

 

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